Ci si aspetta dal cipresso che lo sguardo salga verso l’alto, verso quella punta che sembra perdersi nel cielo. Il cipresso che siamo andate a cercare, invece, attirava la mia attenzione con la selva di rami tagliati che ne coronava il tronco, segno di un ordine imposto. Seguendo il verde che ancora occhieggia fra tanta oscurità si intravvedevano, irraggiungibili, i rami ancora vestiti di foglie sparute. Scendendo ai suoi piedi la terra scura, umida e soffice accoglieva il piede, le dita e riempiva ogni anfratto, ma le mani correvano sulla corteccia spinte da un desiderio di contatto che trova sollievo sul ventre col senso del respiro, dimentica la terra per dedicarsi al cielo. In breve l’abbraccio è diventato un distendersi, sprofondare verso le profondità della terra e allungarsi verso l’azzurro che occhieggiava fra le nuvole, riflettendo attimi di sole. Il freddo un accessorio che favoriva l’immergersi, il vento una carezza che sottolinea la vicinanza. Ho percepito la soglia, oltre la corteccia e le sue macchie bianche come fantasmi; un passo e sei nel buio da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna, un altro passo e sei nella luce, oltre ogni ombra e dubbio e lui lì ad accompagnarti, a mostrarti la meraviglia del potere di andare e di tornare, di lasciar andare e lasciarsi tornare, il rischio di decidere di non tornare.
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AutriceDonna alla ricerca di ciò che è autentico dentro e fuori di sé Archivio
Novembre 2019
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